Serena Fiorentino, esploratrice salentina in camper (l’ormai famoso Odisseo e la sua ciurma), attenta osservatrice antropologica di usi, costumi e tradizioni locali in particolare del Sud Italia cui è legata non solo dai luoghi della sua vita ma anche da un attaccamento viscerale (toglietele tutto, ma non una birra al tramonto sulle spiagge della sua Puglia), studiosa e appassionata divoratrice di libri e cultura che le permette di vedere con occhi diversi il turismo, ci affida queste interessanti riflessioni che volentieri pubblichiamo. Una voce forse scomoda per qualcuno ma che propone un argomento quanto mai attuale e che vale la pena di approfondire. I nostri lettori la conosceranno ormai molto bene per i suoi tanti articoli di scoperta di realtà e paesini del Sud Italia, ma probabilmente questa sua vocazione alla ricerca di usi e costumi “nascosti” ma ancora vivi, questa suo piacere della scoperta di tradizioni che faticano a resistere contro il turismo di massa e destinazioni troppo “mainstream”, ce la fanno apprezzare ancora di più dei suoi sempre appassionanti testi e report di viaggio.
E infine arrivò il titolo con la relativa bandiera o l’insegna di turno e il centro abitato non fu più paese ma borgo e nell’alimentari e articoli vari della signora Maria si moltiplicarono i turisti e la signora Maria non fu più lei.
Niente più chiacchiere senza fine da un lato all’altro del banco dei salumi ora bisogna fare in fretta perché la signora Maria ha altri clienti in fila da servire.
E i ruderi del castello si sono rimessi a nuovo e si son vestiti a festa. Solo a guardarci attentamente ci si accorge che sono irrimediabilmente svuotati della loro anima antica.
E al bar della signora Franca dove fino a ieri si bevevano solo birra Raffo e caffè corretto alla sambuca e si giocava solo con le 40 carte del mazzo di napoletane e col flipper anni ’70 e si parlava rigorosamente in dialetto strettissimo forte, potente, identitario… oggi sono stati sdoganati il brunch, l’apericena, la colazione continentale e si beve spritz in bicchieri di plastica con cannucce di plastica e la signora Franca pronuncia addirittura qualche parola in un improbabile inglese maccheronico.
E infine vennero gli operai, piantarono un palo di metallo già arrugginito nel marciapiede sconnesso e ci affissero un cartello: “bandiera arancione”, “borgo dei borghi”, “borgo più bello d’Italia”, “bandiera blu d’Europa”, “borgo autentico certificato”, “borgo antico”, “cinque vele”, “bandiera verde”…
e il centro abitato non fu più paese ma borgo, divenne contenitore più che contenuto, mera dimensione urbanistica più che comunitaria.
Come sottolinea l’antropologo Vito Teti in un’intervista per il venerdì di Repubblica: “Il borgo è un luogo illusorio, un piccolo paradiso in cui si vive come i turisti, con tutti i comfort, e poi si torna a casa. Il paese, invece, non è un luogo paradisiaco. Le case in cui si vive non costano un euro, come nelle campagne promozionali dei borghi. Sono costate fatica. Costruite una generazione dopo l’altra. C’è una comunità, ci sono relazioni, c’è una memoria e una natura non addomesticata. Portare mille persone in un borgo, con una connessione internet per lo smart working e l’agriturismo per fargli assaggiare i marchi dell’autenticità, non significa far vivere un paese spopolato. Quello riempirà semmai un vuoto fisico, ma rimarrà il vuoto antropologico, ciò che fa di un paese un paese.”